"MEDICINA NATURALE A CONVEGNO"

Centro Congressi Milanofiori

23-24 ottobre 1993

 

 

 

L'ALLEANZA TERAPEUTICA TRA ETICA ED ECONOMIA

 

Alberto Ricciuti

Direttore scientifico della rivista Medicina Naturale

 

 

 

Pratica medica e problemi economici relativi all'allocazione delle risorse sono stati sempre considerati due aspetti in relazione conflittuale.

Le ragioni di questo conflitto affondano le loro radici in due fondamentali presupposti della moralità medica tradizionale tra loro intimamente correlati: da un lato il principio di beneficità che impone l'utilizzo di ogni mezzo atto al conseguimento del bene del paziente, dall'altro la necessità, da parte dei medici, di essere esentati da qualsiasi considerazione riguardo ai costi del loro intervento.

I vincoli che il paradigma cartesiano impone all'abituale modo di pensare e di agire, riguardo ai più urgenti problemi della sanità nelle società a risorse economiche limitate, sono tra i maggiori responsabili del fallimento di molte delle soluzioni proposte per superare queste difficoltà.

L'allocazione delle risorse

La decisione se destinare ingenti somme di denaro alla realizzazione di costosi trattamenti d'avanguardia per pochi o all'assistenza di base per molti non è decisione alla quale i medici possano abdicare a cuor leggero. Ne potrebbero infatti derivare pesanti implicazioni proprio in tema di etica medica.

"Il bisogno di una medicina acuta", osserva in proposito Spinsanti, "è più visibile al pubblico del bisogno di una medicina preventiva. Una persona, con nome e cognome, che sta morendo ora, è più visibile di una persona sana che morirà in futuro, se non adottano misure profilattiche adeguate".

Ed è qui che economia, politica e medicina intrecciano pericolosamente i loro interessi conflittuali.

Raramente, infatti, vediamo le più genuine competenze medico-sanitarie ed etiche al tavolo delle decisioni per l'allocazione delle risorse. Più spesso tali decisioni sono ispirate dai valori puramente economici, piuttosto che umani, dei supertecnici della politica e dell'economia.

L'attuale ripartizione dei fondi (sempre meno alla prevenzione e all'assistenza di base e sempre più a pratiche straordinarie di assistenza e di supporto terapeutico), ben conciliandosi, tra l'altro, con le esigenze di certe forme di medicina e di politica-spettacolo, esemplifica ampiamente quanto stiamo dicendo.

D'altra parte pensare che questo genere di problemi è troppo lontano dalla pratica medica quotidiana per dover pesare sulle già gravose responsabilità del medico nell'esercizio della sua professione, si sta rivelando sempre meno accettabile.

Il bene del paziente

Fare il bene del paziente è da sempre, e giustamente, considerato un valore irrinunciabile. Il problema è che cosa debba intendersi per 'bene'. Se il sistema di valori del medico e del paziente non coincidono, il grado di consenso sul significato che essi attribuiscono a questa parola e sul conseguente giudizio clinico, può essere molto diverso.

A complicare ulteriormente il problema sta il fatto che oggi, soprattutto per quanto riguarda la patologia dominante, cronico-degenerativa, a genesi endogena e multifattoriale, non esiste un consenso su quelle che devono essere considerate le migliori terapie, nemmeno da parte degli stessi medici.

Un alto grado di consenso, invece, esisteva quando la patologia dominante era quella infettiva, a causa della relativa semplicità del suo modello teorico.

Per di più, se nel caso di quest'ultima si può parlare di basso costo e di alta efficacia, nella cronico-degenerativa il rapporto tra costi e benefici è troppo spesso sbilanciato a favore dei primi.

Ma a rendere ancora più acuto il disagio è soprattutto il fatto che la domanda di salute, ovvero il tipo di attenzione che gli stessi pazienti chiedono ai medici nel prendersi cura del loro malessere, sta radicalmente cambiando. Da una tautologica concezione della salute come assenza di quel guasto della macchina corporea chiamato 'malattia', si sta rapidamente passando a una concezione della salute come condizione armonica globale che riguarda l'intera persona nella sua dimensione spirituale, mentale, corporea e ambientale.

Il fatto che la spinta a questo tipo di cambiamento cresca al crescere del livello di istruzione dei singoli individui, lascia pensare che ci troviamo di fronte a un evento che ha le dimensioni di un fatto culturale di ampia portata. L'attenzione all'alimentazione, le attività psicocorporee e persino la cura estetica della propria persona non sembrano avere solo uno scopo edonistico, ma emerge sempre più la tendenza a verificare se una pratica, oltre a essere piacevole e appagante, è anche e sprattutto benefica sul piano della salute.

E' quindi facile comprendere come la cultura medica dominante si trovi profondamente a disagio di fronte a questo genere di cambiamento.

Le sue insufficienze non riguardano lo strumentario tecnologico, ma l'edificio teorico della sua stessa epistemologia.

Ci troviamo così di fronte a due sistemi di valori che entrano in conflitto e da cui derivano diverse concezioni del 'bene'.

Ove 'malattia' è puro e semplice danno biochimico-umorale, lì il bene coincide con la riparazione del danno secondo i dettami di un sapere tecnico-scientifico in continua evoluzione e che tende a raccogliere il più ampio consenso della comunità scientifica riguardo alla migliore terapia. Con questi presupposti è quindi giustificato agire per il bene del paziente anche senza il suo consenso o senza avergli fornito gli elementi necessari per esprimere il suo eventuale dissenso riguardo alle decisioni prese dal medico. E' questo, in breve, il modello ippocratico-paternalista, ancora ampiamente radicato nella cultura medica europea.

Ove, invece, 'malattia' è una situazione esistenziale non più astratta e impersonale, ma centrata nella storia della persona sia per quanto riguarda le possibili ragioni del suo insorgere sia per quanto riguarda le risorse che ne possono consentire la soluzione, il bene del paziente è più vicino a ciò che egli ritiene essere il suo bene, ovvero dipende strettamente dal suo sistema di valori. Nella relazione medico-paziente si passa così dal precedente rapporto paternalista e autoritario, a un rapporto libertario-autonomista, fondato sul rispetto dell'autonomia del paziente, che attualmente è più diffuso nei paesi anglosassoni.

Senza addentrarci in questa sede in una più approfondita disamina di questi modelli, per la quale rimandiamo alla letteratura, è sufficiente quanto detto per comprendere come, a grandi linee, il bene del paziente possa non venire raggiunto nè in un caso, nè nell'altro.

Nel primo appare evidente che è lo statuto di una medicina autoritaria che decide e dispone anche a costo di scavalcare ingiustificatamente i desideri del paziente, orientata solo all'osservazione di processi biologici astratti e non all'ascolto delle ragioni e dei progetti di vita della persona. La conseguente esasperazione del valore della 'spiegazione' di tali processi come unica chiave d'accesso al 'migliore' intervento terapeutico comporta, tra l'altro, l'incontenibile e inevitabile aumento dei costi della sanità che è ogni giorno sotto gli occhi di tutti.

Nel secondo caso, come notano E.D.Pellegrino e D.C.Thomasma, anche il principio dell'autonomia, se radicalizzato, può comportare dei rischi per il paziente con il fallimento del fine di agire per il suo bene, il perpetuarsi o aggravarsi dello stato di sofferenza e il conseguente aumento dei costi. Il paziente, infatti, tanto più trovandosi in una effettiva situazione di disagio e di sofferenza, può, al limite, trovarsi abbandonato alla sua capacità o incapacità di decidere, da parte di una medicina che in modo non coinvolto, distaccato e deresponsabilizzato, lo lascia solo a decidere nella più isolata e angosciante 'autonomia'. Inoltre, se è vero che nella maggior parte dei casi la malattia non incrina l'autonomia personale che in misura molto limitata, è proprio nelle situazioni più gravi e invalidanti che tale autonomia è spesso compromessa su tutti i livelli della persona.

Per questi motivi, Pellegrino e Thomasma, ritengono che "in medicina l'autonomia non dovrebbe essere considerata un punto di partenza o un principio assoluto al quale gli altri vengono subordinati. Piuttosto dovrebbe essere ritenuta parte del fine a cui tende il trattamento, uno dei beni del paziente, da promuovere ma senza escludere completamente tutti gli altri beni".

L'alleanza terapeutica

Per ovviare alle difficoltà di entrambi i modelli paternalista e autonomista, è spesso invocato il recupero del valore del dialogo, da parte di una 'medicina del silenzio' che da troppo tempo ha perso il contatto con la persona e con la dimensione umana della sofferenza.

Il problema però, non è riconoscere il valore del dialogo. Come non essere d'accordo? Il problema è di che cosa si parla...E la risposta dipende dal paradigma che la informa.

Finchè il medico rimarrà confinato nell'angusto orizzonte della diagnosi di malattia, preoccupato solo di spiegarne i meccanismi e prevederne il decorso, non riuscirà a comprenderne il senso, e il suo sguardo non incontrerà mai il malato. Il suo linguaggio rimarrà quello della sua disciplina, un linguaggio distante dal senso comune. Il suo intervento, anche quando teoricamente ineccepibile sul piano 'biologico', si rivelerà spesso poco efficace sul piano 'biografico', ovvero sul piano del contesto individuale e sociale nel quale la stessa malattia è 'storicamente' centrata e dal quale trae spesso le ragioni del suo esistere.

In questo senso all'ombra del dialogo, rischia di riproporsi ancora una volta, come scrive Umberto Galimberti, "...il monologo della scienza con se stessa che, sotto la specie dell'organismo, si impossessa per intero del nostro corpo...".

E il rischio che il dialogo diventi un monologo sussiste ovunque una rigida e dogmatica chiusura intradisciplinare impedisce di disporsi con rispetto all'ascolto dell'altro. Dove disporsi all'ascolto significa, al di là delle certezze e delle incertezze dei propri modelli teorici, quello spirito di servizio che è presupposto irrinunciabile per una riumanizzazione della medicina che vada oltre alla retorica delle parole.

Là dove l'ansia di 'spiegare' porta a parlare troppo e la rinuncia a 'comprendere' porta a parlare troppo poco, la disponibilità all'ascolto consente di acquisire quegli elementi che permettono di modulare il proprio intervento verbale e strumentale e orientarlo verso l'obiettivo più autentico della pratica medica: il potenziamento delle risorse psicobiologiche della persona.

Tradizionalmente si dice, invece, che l'obiettivo della medicina è guarire la malattia. Questo onnipotente paradigma culturale è infatti stigmatizzato dalla fatidica sentenza "non c'è più niente da fare", che accompagna purtroppo molte delle situazioni di più acuta sofferenza umana. Laddove c'è tutto da fare se l'obiettivo della medicina è prendersi cura del malato, sostenendo fino all'ultimo respiro le sue risorse psicobiologiche affinchè, anche quando ridotte al lumicino, possano consentire alla persona di percorrere serenamente l'ultimo tratto della sua vita.

La guarigione, in questa prospettiva, più che all'ambito degli obiettivi, appartiene all'ambito dei risultati più o meno raggiungibili mediante l'intervento medico.

Potrà essere così superato quel senso di fallimento e di impotenza per non poter sempre guarire, che troppo spesso allontana i medici dai loro pazienti nei momenti più difficili.

In questa prospettiva è allora facile rendersi conto che al dialogo è necessario, urgentemente, un nuovo ambiente culturale, un nuovo paradigma (che chiamerei sistemico-integrato, rispetto all'attuale paradigma riduzionistico), nel quale l'uomo sia considerato e rispettato nella sua irriducibile unità di persona, storicamente centrata nel contesto in cui vive. Un ambiente nel quale la relazione tra medico e paziente sia essa stessa fondamentale strumento di cura, ovvero il luogo naturale per lo sviluppo di una vera e propria alleanza terapeutica. A creare questo ambiente non basta di per sè il dialogo; questo è solo uno strumento al servizio di una cultura.

Ciò che occorre è promuovere l'emergenza di una nuova percezione medica della complessità del vivente, ossia promuovere l'emergenza di un nuovo 'sguardo clinico' che emerga da una riorganizzazione concettuale e operativa dell'immagine dell'uomo, grazie alla quale la diagnosi di malattia assuma il ruolo di fondamentale, ma non esclusivo, momento strumentale, per giungere a ciò che L.O.Speciani chiamò diagnosi di persona. Una diagnosi che consente la formulazione di un giudizio clinico personalizzato, felice sintesi di competenza tecnico-scientifica e sensibilità umana e professionale del medico.

La spesa sanitaria

Ed è a questo livello che si trova l'interfaccia con la spesa sanitaria sul piano sociale. Infatti, dalle riflessioni fin qui esposte, consegue che non è sempre vero che il migliore intervento sul piano della realtà esistenziale della singola persona, corrisponda necessariamente al migliore intervento sul piano della malattia come entità nosografica.

La pratica di una medicina dell'ascolto, infatti, fa scoprire che spesso il migliore intervento diagnostico e terapeutico sul piano 'biografico', non solo è notevolmente meno costoso del migliore intervento sul piano 'biologico', ma ha un potenziale educativo che si traduce positivamente, per il paziente e per la collettività, sia sul piano della prevenzione, sia su quello della promozione della salute.

La maggiore responsabilizzazione e autonomia personale che ne consegue, si traduce spesso in una più soddisfacente qualità della vita, un ridotto uso di farmaci, minori rischi iatrogeni, minori recidive e una minore dipendenza dalle strutture pubbliche. Al contrario, una eccessiva medicalizzazione della vita dell'individuo e della collettività comporta spesso una qualità di vita meno soddisfacente, lo sviluppo di una mentalità invalidante, un maggiore ricorso a costose e spesso inutili terapie sintomatiche e una maggiore dipendenza dalle strutture pubbliche.

In questo senso una medicina dell'alleanza, che operi nell'orizzonte culturale di un paradigma sistemico-integrato, grazie a una personalizzazione dei suoi interventi, può consentire la soluzione di almeno due problemi di grande rilevanza etica, fra loro strettamente correlati: la certezza di agire, in scienza e coscienza, per il bene del paziente anche quando la strategia di cura, decisa col malato, si discosta dai protocolli istituzionali o richiede minori risorse economiche; il riconoscere al medico un ruolo di primo piano nell'allocazione delle risorse senza che questo induca in lui alcun conflitto di natura etica.

Il risparmio di spesa pubblica, infatti, lungi dal costituire per il medico un inaccettabile limite al suo agire per il bene del paziente, emerge come risultato implicito del suo operato. Maggiori risorse potranno così essere disponibili per quei pazienti che richiedono interventi costosi e che se li vedono negare a causa degli sprechi non necessari e dei danni iatrogeni che spesso questi comportano.

Tutto ciò ci fa ancora una volta riflettere sul fatto che i grandi problemi di etica medica non sono solo quelli spettacolari e a grande risonanza emotiva di certe zone di frontiera, ma abitano, forse più silenziosamente e insidiosamente, la medicina del quotidiano, ovvero quella base della piramide socio-sanitaria dalla quale dipende gran parte della spesa pubblica.

 

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