UES

EUROPEAN SYSTEM SCIENCE UNION

Third European Congress on Systems Science

Roma, 1-4 ottobre 1996

 

CAMBIARE IL MEDICO O CAMBIARE LA MEDICINA?

 

 Alberto Ricciuti

Membro A.I.R.S. - Associazione Italiana per la Ricerca sui Sistemi

Direttore Scientifico della rivista Medicina Naturale

via Decembrio, 18 - 20137 Milano

tel./fax: + 39 (2) 5454011

 

 

Sommario - Il sempre più frequente ricorso a metodi naturali di cura, più rispettosi dell’unità della persona, è ritenuto, da molti Autori, l’espressione in medicina del cambiamento di paradigma in atto nella cultura odierna. Tuttavia il passaggio dalla cura della ‘malattia’ alla cura della ‘persona’, sembra spesso avere solo i connotati di un ampliamento del campo visivo del medico, che continua a vedere se stesso come osservatore neutrale di una realtà esterna. Il vero cambiamento di paradigma richiede la piena coscienza da parte del medico che, nella sua relazione col paziente, non somministra solo ciò che ha ma anche e soprattutto ciò che egli è. A quel punto il comportamento etico non si esaurisce semplicemente nella mera applicazione di principi corretti, ma è più vicino a un agire dettato dalla comprensione di cosa può essere il bene per il malato.

 

Il nostro travaglio contemporaneo - e forse dell'essere umano da sempre - sembra prendere corpo dal non riuscire a trovare la giusta misura fra il bisogno di affermazione dell'individuo e il suo innato bisogno di elevarsi all'universale.

Le rispettive risposte a questi bisogni, oscillano spesso fra il più squallido individualismo e l'invitante seduzione di una ideologia. Risposte entrambe che, se estreme, generano una sorta di narcosi dei sensi e dell'anima che rende insensibili o indifferenti alla solidarietà e alla giustizia, al diritto e alla libertà, alla verità e alla bellezza.

Ma la giusta misura, al contrario, non è mai estrema ed è raggiungibile solo in un orizzonte di saggezza che, attraverso una costante ricerca di senso, consente all'anonimo individuo di ascendere al livello di 'persona' e alla ingenua chiusura delle ideologie di aprirsi al dialogo e alla ricchezza dei valori che le trascendono.

Di questa ascesa e di questa apertura c'è oggi un estremo bisogno in medicina e sanità. Bisogno per il medico di fertilizzare la sua competenza tecnico-scientifica con un rinnovato Ethos; bisogno per la medicina di riflettere sui suoi fondamenti epistemologici e di individuare metodi di ricerca e cura più orientati alla persona che alla malattia.

Il cambiamento della domanda di salute

Il ricorso a pratiche mediche più aperte alla dimensione biografica della sofferenza e non solo alla impersonale dimensione biologica della malattia, è in grande aumento. Il corpo è visto sempre meno come semplice agglomerato di singole parti e sempre più come una unità globale emergente da una complessa rete di relazioni. La malattia, come la salute, è vissuta sempre meno come 'stato' e sempre più come 'processo', ossia sempre meno come il danno isolato di una parte della macchina corporea e sempre più come un evento esistenziale complesso che pone spesso le sue radici in una disarmonia dei comportamenti e delle relazioni della persona con se stessa, con gli altri, con l'ambiente.

Dalla medicina ci si aspetta sempre meno (tranne situazioni ben precise per lo più legate alle emergenze) un impersonale servizio di riparazione e sempre più un aiuto a individuare stili di vita e di comportamento in grado di generare benessere.

Lo rilevano concordemente tutti gli studi e le ricerche di medicina sociale pubblicati negli ultimi anni e tale fenomeno aumenta progressivamente con l'aumentare del grado di istruzione raggiungendo il suo massimo a livello di cultura liceale e universitaria. Ostinarsi a giustificare tutto ciò come semplice fenomeno di moda o come conseguenza della pletora di giovani medici in cerca di occupazione è ingenuo e fuorviante.

Le ragioni, ben più complesse, sono da ricercare nella dimensione storica e psicosociale del nostro tempo: nella emergente cultura bioecologica, nel bisogno di rispetto per la singolarità della persona e delle sue credenze sul piano individuale e sociale, nel lento emergere di una cultura del diritto e della solidarietà.

Verso un nuovo paradigma

Se vogliamo che la medicina continui ad essere a fianco dell'uomo per aiutarlo e sostenerlo con la dovuta efficacia nel suo lento cammino evolutivo, una attenta riflessione su questi temi è un passo irrinunciabile, perché invita il medico a ridefinire i fondamenti epistemologici e metodologici della sua prassi professionale e a interrogarsi sul significato più autentico del suo ruolo, sulle sue speranze, sulle sue paure. E se è vero che sul piano della conoscenza tecnico-scientifica il medico somministra al paziente ciò che ha, è altrettanto vero che sul piano umano e comunicativo somministra ciò che egli è; e un intervento inappropriato su questo piano può essere non meno devastante sulla persona di un intervento tecnicamente scorretto.

Nel tentativo di dare risposta a queste insufficienze e a questi bisogni, negli ultimi anni sta emergendo un sempre più frequente ricorso a pratiche diverse di medicina che si collocano nel vasto ambito della Medicina Naturale.

Fra queste si riconoscono, a grandi linee, due tendenze: da un lato il persistere di atteggiamenti radicalizzati su rigide posizioni dottrinali, che mantengono un alto livello di conflitto con le tradizioni accademiche della medicina, e che si pongono deliberatamente nel vicolo cieco della medicina alternativa; dall’altro posizioni più aperte, intermedie, che cercano di individuare l’interfaccia con le attuali conoscenze scientifiche, in vista di un ampliamento delle reciproche conoscenze e di una integrazione di metodologie differenti di diagnosi e di cura.

Questa seconda posizione, che tende oggi a prevalere sulla prima, è indubbiamente la più feconda

e la sola che può consentire la promozione e la diffusione di un approccio sistemico ai problemi della salute.

Medicina naturale, quindi, nel senso forte di una medicina che opera nel rispetto della natura della persona umana, senza preconcette chiusure ideologiche e limitazioni strumentali, e non nel senso debole e ingenuo di una medicina che usa solo strumenti di cura naturali e che potremmo perciò chiamare naturalistica.

E quando dico 'persona' intendo un essere razionale programmato per esprimere giudizi, per cogliere la verità su ciò che è bene e ciò che è male, per interagire col suo ambiente nel modo più coerente ed efficace per realizzare obiettivi di valore. Un 'animale morale' quindi, nel quale la medicina può riconoscere il significato dei processi psicobiologici che specificano la sua unicità solo avvicinandolo tutto intero, nella sua complessità di impasto inscindibile di carne e anima.

Di fronte a una tematica di così ampio respiro ritengo inopportuno e riduttivo invischiarsi in inutili e stantie polemiche sulla medicina ufficiale, alternativa o altro. Non è questo il problema. E se mai in altri tempi lo è stato, sicuramente ora non lo è più.

Ciò che si sta realizzando sotto i nostri occhi non deriva, in primis, da una revisione delle teorie scientifiche (quella, nella storia, è sempre venuta un attimo dopo), ma dall’emergere di un nuovo modo di sentire e di sperimentare la vita che, di conseguenza, costringe la scienza a rivedere le sue stesse teorie.

Riconoscere che il ricorso a metodi naturali di cura o a medici che praticano una medicina naturale nel senso detto all'inizio (non è la stessa cosa...) è sempre più frequente, deve qui servire solo a interrogarsi sul senso che tutto ciò può avere per trarne utili indicazioni per il futuro della prassi medica sul piano individuale, sociosanitario e socioeconomico.

Se orientiamo la nostra attenzione sui grandi sistemi medici nati in contesti socioculturali diversi, come la medicina cinese e ayurvedica o la 'neonata' omeopatia, alla ricerca non tanto di cosa le differenzia ma di cosa le accomuna, per meglio comprendere perché sempre più persone vi ricorrono, credo che si possano evidenziare tre punti fondamentali:

1 - la concezione dell'uomo come una unità indivisibile e irripetibile nei suoi diversi aspetti spirituale, mentale, fisico e ambientale che sono costitutivi della sua natura di 'persona';

2 - la 'diversità' non come caotico rumore di fondo che intralcia la ricerca e la pratica medica, ma come ricchezza preziosa da tradurre in informazione e fonte di risorse, in atto o potenziali, orientate al cambiamento e alla riarmonizzazione dei comportamenti e dello stile di vita della persona stessa;

3 - l'obiettivo della prassi medica non è la guarigione ma il potenziamento delle capacità auto-organizzative e auto-riparative dell'essere umano mediante lo stimolo, il sostegno e la riarmonizzazione delle risorse personali. La guarigione, quindi, non appartiene all'ambito degli obiettivi della prassi medica, ma a quello dei risultati possibili.

Il paziente, così, è chiamato a partecipare attivamente e consapevolmente al processo di cura e a esercitare la sua responsabilità nel riprogettare in modo nuovo la sua vita. La guarigione può essere persino più facilmente raggiungibile o più duratura.

Su queste basi l'utilità e la potenziale efficacia dell'intervento medico non è mai diminuita, nemmeno e soprattutto quando le energie e la speranza di vita del malato sono ridotte a un angusto spiraglio. Su queste basi, ancora, può essere superata la mortificante sentenza 'non c'è più niente da fare' che il medico pronuncia - a se stesso prima che al malato - in quelle situazioni in cui l'onnipotente obiettivo di guarire non è più raggiungibile e che allontana, spesso persino fisicamente, il medico dal suo malato; l'uno con un senso di frustrazione e di impotenza, l'altro con un senso di solitudine e di abbandono.

Il contenuto di questi tre punti fondamentali può costituire l'anima di un ambizioso progetto di rifondazione della cultura medica e di superamento dei limiti, ormai da tutti individuati, dell'attuale sistema biomedico.

All'inverso quelle stesse Medicine possono trarre un enorme beneficio dialogando senza pregiudizi col sapere tecnico-scientifico e con le sue grandi potenzialità teoriche e pratiche.

Sono da sempre convinto che la via più saggia che possiamo e dobbiamo percorrere passa attraverso una integrazione di queste diverse metodologie di ricerca e cura che consenta il superamento dei reciproci limiti.

Ne può utilmente emergere, per il medico, una riqualificazione umana e professionale, uno sguardo clinico orientato alla globalità della persona e una maggiore abilità nel produrre strategie decisionali più sensibili al contesto; per il paziente, una relazione più soddisfacente sul piano comunicativo, più efficace sul piano diagnostico-terapeutico e più invitante nel promuovere, ove necessario, utili riflessioni sul proprio stile di vita.

Questo approccio teorico e pratico trova così la sua più efficace definizione nel concetto di 'alleanza terapeutica', termine che bene esprime l'atteggiamento di solidarietà, di fiducia e di rispetto che qualifica la relazione fra medico e paziente ed è il presupposto fondante delle reciproche responsabilità.

Le più recenti ricerche di medicina sociale mostrano che questo processo si è già, comunque, spontaneamente avviato, spinto da un fattuale e irreversibile cambiamento della domanda di salute. E' doveroso quindi cercare di renderlo esplicito attraverso forme organizzate di pensiero e di azione che consentano di sostenere e promuovere in medicina la transizione verso quello che pare emergere come nuovo paradigma socioculturale del nostro tempo.

Il medico come persona

Il medico si è sempre posto come osservatore esterno e neutrale - ponendo questa pretesa neutralità a fondamento del suo ruolo - della malattia e dei meccanismi che ne determinano lo svolgimento. Le ragioni di questo atteggiamento trascendono la medicina e sono da ricercare in quella ben più ampia concezione classica del mondo e della natura che si è andata sviluppando negli ultimi trecento anni e che ha preso l’avvio dall’opera di Newton, Cartesio e Bacone.

Tuttavia la convinzione di poter osservare in modo neutrale i fenomeni naturali, come se avvenissero ‘là fuori’, in uno spazio e un tempo assoluti, è caduta ad opera della rivoluzione che ha sconvolto la fisica nei primi anni del nostro secolo. Col solo atto di osservare, l’osservatore interagisce col fenomeno osservato modificandolo.

Non è questa la sede per ripercorrere nei dettagli questo complesso e ben noto cammino. D’altra parte se da un lato può sembrare azzardato accostare tout court tali concetti alla medicina, è pur vero che essa pare esservi fortemente implicata a diversi livelli. Sul piano comunicativo, ad esempio, la relazione tra medico e malato è un’interazione modificante che coinvolge entrambi.

Ma anche fra i medici che praticano una cosiddetta medicina naturale, e che spesso si dichiarano in diretta continuità culturale con tale assunto, una chiara coscienza delle sue implicazioni pratiche, non è sempre così evidente. Si parla sì del paziente come persona, dell’importanza di terapie rispettose dei processi vitali, di una visione olistica, attenta all’uomo e alle sue relazioni, ma l’immagine che il medico ha del suo ruolo è spesso ancora quella del ‘vecchio’ osservatore che tende a non mettere mai in discussione se stesso e il suo sguardo oggettivante. L’osservatore di una realtà, sicuramente più complessa, ma alla quale partecipa in modo pur sempre distaccato. Il depositario di un sapere, magari più ricco e articolato così come vogliono le moderne teorie della complessità alle quali spesso ci si riferisce, ma che viene, in molti casi, erogato ai pazienti attraverso nuove forme di ‘indottrinamento’.

Ma è solo questo il cambiamento della medicina? Siamo sicuri che è sufficiente l’avvento di nuove teorie di sapore psicobioecologico per un’evoluzione della medicina e della sanità non solo sul piano individuale, ma anche e soprattutto su quello relazionale e quindi sociale?

Io credo di no.

In altre parole sto dicendo che chi si rivolge all’uomo nella sua dimensione esistenziale globale è sempre un altro uomo che proietta se stesso in quella storia. Siamo noi medici che utilizziamo prima di tutto noi stessi come strumento di osservazione, anche quando ci serviamo di protesi tecnologiche per amplificare le capacità percettive dei nostri organi di senso. E’ al nostro essere ‘persona’ che dobbiamo rivolgere finalmente l’attenzione, per educarci a una nuova sensibilità percettiva dell’universo umano col quale entriamo in relazione.

E quando parlo di percezione intendo ben più dei dati che i nostri sensi fisici sono in grado di rilevare. Parlo della capacità di vivere quell’esperienza empatica che apre l’accesso alla comprensione dell’altro, alla formulazione di un giudizio clinico centrato sul malato e non solo sulla malattia, e che consente di modulare naturalmente e senza forzature sia i toni e l’espressione della comunicazione, sia le strategie terapeutiche. Parlo di quello sguardo clinico centrato sulla persona che l’esclusivo esercizio del sapere scientifico-tecnologico sembra avere appannato.

Non sto parlando di un nuovo modo di ‘fare’ medicina, ma di ‘essere’ medici, un modo che implica il saper lasciar parlare non solo il medico ma anche il paziente che è in noi, un modo più consapevole e coerente di porci prima di tutto di fronte a noi stessi e solo allora di fronte ai malati, per trasmettere loro le nostre speranze e non le nostre paure. Perché ciò che il paziente percepisce più intensamente di ciò che gli somministriamo è il modo di essere della nostra persona, se quanto stiamo affermando è sincera espressione della nostra coerenza o se stiamo solo recitando un impersonale copione.

Sono convinto che il cambiamento che in medicina si sta realizzando non si può fermare alla riesumazione o alla elaborazione di vecchie o nuove teorie a sostegno di approcci terapeutici alternativi, ma è destinato a consolidarsi in un cambiamento del modo di ‘risuonare’ del medico di fronte alla storia di vita che il malato gli porge.

Al contrario ritengo inopportuno e imperialista qualsiasi tentativo di concedere (da quale pulpito?) l’imprimatur di ‘naturali’ solo ai medici che si attengono a certe modalità prescrittive, come qualcuno vorrebbe, pena offendere la libertà personale e ghettizzare la medicina naturale e il suo respiro antropologico, in un ristretto e miope ambito naturalistico incapace di liberarsi dei vecchi paradigmi.

Il futuro della medicina si gioca sulla consapevolezza e sul rispetto incondizionato del ruolo centrale della persona e sulla coerenza dei suoi comportamenti. La capacità di dosare con la dovuta prudenza e saggezza gli interventi diagnostici e le scelte terapeutiche ne sarà allora la logica e naturale conseguenza. Per cambiare la medicina, in pratica, dobbiamo cambiare il medico e la percezione che egli stesso ha del suo ruolo nella relazione con paziente.

Sarebbe un grosso errore pensare che quanto sto dicendo abbia solo un valore estetico. Misurarsi con nuove teorie è solo una parte del percorso di cambiamento del medico, la parte che riguarda la conoscenza intellettuale di diversi punti di vista sulla vita; ma la medicina è una attività pratica, un mettere le mani in pasta, un dare corpo a ciò che si è. Perché fra le diverse teorie destinate a sostenere intellettualmente il suo lavoro, l’uomo fa proprie quelle che meglio rispondono al suo modo di sentire la vita.

Ma la realizzazione pratica di un nuovo modo di essere implica sempre una disciplina interiore, cioè un metodo d’igiene mentale. Ed è, quindi, in sede di formazione professionale che il futuro medico dovrebbe essere iniziato con metodo a quella pratica riflessiva e introspettiva che gli permetterà, affrontando a viso aperto le sue incertezze e le sue paure, di sviluppare sensibilità empatica e comportamento etico. Sarà così meno problematico saper dosare opportunamente se stesso e i suoi interventi nella relazione col malato. Il carico di ansia e di responsabilità che l’alleanza col malato a volte comporta, e che è spesso responsabile della ‘fuga’ in un eccessivo (e costoso!) comportamento prescrittivo di esami diagnostici e di inutili, quando non dannose, terapie, potrebbe così venire di molto diminuito.

 

Bibliografia

 

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